Cuffie deserte – Gilberto Isella

 


Aprile 2021 –

 

Terre d’outre-nuit que le le soleil arrache à la
méditation épines du doute
Edmond Jabès

 

Intorno a mare perso

 

 Oltrepassata la costa in dissolvenza del Mar Morto, le melme diventano strisce compatte di terriccio, scintillano. La strada vira a sudovest ma con digressioni, tipo ampi tornanti che permettono di aggirare le zone più accidentate. I rilievi si disdicono, timide schiene d’asino e sentore di piattezza incombente, aridità generica e intercambiabile. Villaggi mimetizzati dietro canne, agavi e pallidi sicomori in lontananza, senza forare spazio. Né beduini né cammelli intorno. L’alfabeto geologico di questa landa è direi senza qualità. Deserto faible, pensiero debole materializzato. Meglio così. Scenari privi di scenografie forti sono redditizi per immaginazione e incubi. I Padri del Deserto, gli stiliti, Sant’Antonio lo sapevano. Mostri, chimere. Immondizia gettata sui cigli del nastro asfaltato installa sagome scheletrine – complici bianca luce e polvere, indefinitezza cromatica – poi un costolone dracomorfo. Il drago distilla subitanee inquietudini, scuote le ali dentro la sonnolenza che ti sorprende nelle ore calde mentre in macchina attraversi questo desolato territorio.
Secondo antiche leggende, temibili creature s’annidano nel labirinto di grotte e uadi che contornano il sito fantasma dell’antica città di Sodoma, maledetta da Elohim, non distante da qui. Basterebbero segnature incise su pietre e incrostazioni, sgorbi e altre artificiose gibbosità a irradiare quella lontana maledizione. Corpi in campiture, che si devastano a vicenda. Attizzatoio di umor fantastico è anche l’immane archivio storico sepolto sotto dure rocce e sabbie. Clangori filtrano dal suolo: echi di spedizioni e sanguinose battaglie, ribollimenti del cavalcare e battersi: ruote ittite e assire, frecce partiche, gagliardetti tolemaici e romani. L’antenna iperbolica s’attiva in ciascuno di noi. Ma non è che per pochi battiti di palpebra, poi il fantastico s’incancrenisce. Svaniscono chimere, voci e cuffie d’ascolto divorziano, rimangono acusmi indeterminati. Fuggifuggi degli incantesimi, tinte e suoni omologati nel baulone del nulla.

Siamo in tre sul pick-up marroncino tirato a lucido: Emilia, io e Yoram, la sagace guida ashkenazi messa a disposizione dall’agenzia di Tel Aviv. Il deserto del Neghev, appendice naturale del Mar Morto, “senza rischi per la vostra incolumità fisica e mentale” tiene a rassicurare Yoram, sfidando il sopore di noi due, “niente califfi intorno”. La mia amica alterna acqua frizzante e caramelle al carmol, non scatta foto dai due giorni trascorsi sul mare. Si riassorbe, entra in circuiti di autoascolto. Lasciando che si consumino i giallastri banchi di noia – il visibile esterno – forse medita sul bestseller portato nello zaino come un talismano, il romanzo Giuda di Amos Oz. Mi aveva già reso edotto, al riguardo: “Non esistono traditori e tradìti, Giuda non è Giuda, e probabilmente Cristo nemmeno Cristo. Tutti siamo attori e complici di un piano universale di cui s’ignora il senso. Non è detto che l’essere umano sarà redento. Shemuel, avvilito protagonista della storia, cerca fortuna in una nuova città del Neghev ”. “Ci tolga una curiosità, Yoram. Quante volte abbiamo attraversato pezzi di territorio palestinese, da Gerico a qui dove ci troviamo?”
“Vi sto conducendo nella luce di Israele, e voi vi preoccupate delle sue ombre?”

La macchina rallenta a uno dei rari incroci. Un cartello indicatore indica Be’er Sheva. Noi dobbiamo invece prendere per Mizpe Ramon. “Cosa ne pensa dello scrittore Oz?”, gli chiede Emilia. Un attimo di perplessità, si passa un fazzoletto sulla fronte: “Troppo cinico e astuto Oz, per riflettere l’animo autentico di questo paese”. Cambia subito tema. “Lo sapevate che il fondatore della nostra nazione, Ben Gurion, ha trascorso gli ultimi anni di vita nel Neghev?”
L’incolumità mentale di noi due: e, al fine di salvaguardarla, come sbarazzarci di Yoram e degli spacciatori di viaggi. Per rendere l’idea, a bruciapelo: del viaggio in sé. Qui, per soprammercato, è come

                 come passare da una cosa morta all’altra, frugare in una pentola vuota. Il Neghev? Ultimo vagone aggiunto al convoglio esplorativo solo per conquistarci quel triangolo isoscele di brullità che completa la carta di Israele. Bastava concludere col Morto, o volare direttamente a Eilat sul Rosso. Emilia proponeva un simile bypass. Io esigevo invece ponderazione, mi appellavo a scritture, a segni capaci di sostituire vuoti panoramici, compensare transitorie e frigide emozioni. Mio intento: ricavare da una scodinzolante lista di appunti un compiuto libro di viaggio. E le premesse – spazio e tempo – dove cercarle? Metter mano con prudenza a storia e geografia? Meglio forse rovistare nelle sacche memoriali dell’io, affidarsi a quei

                 quei ritagli di perturbante (intimo, idiota per eccellenza) che avevano consentito, poniamo a Joyce, di mettere in moto l’Ulisse, straordinario poema del narciso leso. Sfilata di soggetti in divenire – tutti riversati in uno – che adombrano processioni di teschi, il passato remoto per il passato-futuro anteriore (o viceversa). Giacché il vero narciso adora intingere il proprio volto in qualche craniospecchio di cultura.
Il funerale di Patrick Dignam, celebrato tra pirotecniche discese in biblioteche e birrerie da Ade, valga da paradigma. Segugi spirituali a ogni capoverso, certo, dign(am)ità còlte al volo durante la loro dispersione. Come dire

                 come dire lo zigzag, il disseminarsi del senso a mo’ di duna che si sfalda, commento di commenti fino a intravedere sterili contrade, le parole-locuste che ruotano con ossessione intorno a un vischioso cimelio metamorfico, a una bislunga bara chiamata Mar Morto. Distesa di malta salina che finge di portare in superficie ricordi ma è solo pozzo di annientamenti, mare scosceso in se stesso. Che eiacula preziose allegorie, ma non dispone neppure di una riva per accoglierle. E nemmeno simulacri di porti, e la sua fauna ittica fossile è virtualmente mostruosa, raffigurabile ieri e oggi in nere prosopopee di bitume.
Eppure è proprio lanciando lo sguardo a quella morta gora che qualcosa, dalla cultura del silenzio, affiora verso di noi. Una domanda disarmata e disarmante, la stessa del filosofo Derrida: “Sommes-nous des Grecs, sommes-nous des Juifs?” Insomma, da dove proveniamo, di quali impasti di luoghi e linguaggi siamo fatti? Domanda in standby, da millenni galleggiante – né su né giù – ma in quanto tale al riparo da usura. Ne era ben conscio il grande irlandese.

Il lago Asfaltite, o Morto. “Amaro e infecondo”, scriveva Flavio Giuseppe, “ma per la sua leggerezza mantiene a galla anche gli oggetti più pesanti che vi siano gettati dentro. Quando Vespasiano si recò a visitarlo, ordinò di gettare in acqua alcuni che non sapevano nuotare, con le mani legate dietro la schiena, e tutti tornarono a galla come fossero spinti verso l’alto da un potente soffio” (De bello judaico, IV, 8).
Pervenuti a quelle sponde, noi, due giorni fa. Yoram approfitta per chiederci con sinuosa gentilezza un po’ di congedo. Ovvio. “Godetevi En Bokek. Non dimenticate di prendervi un bagno, certo l’acqua non è quella del Giordano, guai a immergervi la testa, ma ne scoprirete immediatamente i benefici”.
En Bokek, ex pugno di casupole ora cittadina balneare, quattrocento metri sub limine. Complesso di alberghi lussuosi, a metastasi. I fanghi del Mar Morto, terapia ineguagliabile contro verruche, incartapecorito derma, invecchiamento. Cloruro bituminoso a profusione, scorrente in creme e pomate. I ricchi dannati della terra convengono qui. Mare da obitorio che ridarrebbe vita alle stoppie. Di fronte a noi i rilievi sulfurei della Giordania. L’albergo Hesed, gestito da joint-venture russo-israeliana, è uno dei più rinomati, dialettica di fitness e ottimismo culinario. Difficile raggiungere camera senza aver prima scavalcato palestre o tempietti rigeneratori. Gli ascensori: conventicola di accappatoi e ciabatte in fregola. Gommose istallazioni fitomorfe sui pianerottoli. Varcata la soglia e messa via la tessera magnetica, Emilia spalanca impulsivamente la porta finestra che dà sul mare. Il potente soffio dell’immagine che a noi sale e investe gli occhi ci esonera dal preannunciato rito d’appisolamento meridiano, ora è la ruah di un’altra scena

                 di un’altra scena a impostare nuove, bislacche coordinate dello sguardo. Dietro l’indolente vaevieni sulla litoranea, tra palme stenterelle e una striscia di spiaggia assolata, spicca lembo di mare. L’imago è fermatempo e fermaspazio, anello chiuso del vedere, immobilità in se stessa iterata. “Mi sento come una cornice che sta per cedere”, esclamo. “Chiudi la bocca, e guarda lo spettacolo”, ribatte Emilia.

Mare, pelle opalina dai riflessi calcinati. Osserviamo, lì infisse, testoline umane del tutto simili a boe, come se qualcuno le avesse sistemate nella platea di uno spettrale teatro idrico. Dove si sono cacciati gli arti, dove pulsa il cuore? Come sono entrate, ce la faranno a uscire? Paiono foruncoli d’acqua, bolle di una statica emulsione. Cupolette della morte. E se l’acqua si mutasse in ghiaccio, contro ogni logica climatica? Mi viene in mente il nono cerchio dell’Inferno, il dantesco Cocìto, i traditori conficcati nell’eterno ghiaccio metafisico. Mi figuro il male condannato al suo definitivo, inamovibile algoritmo, allorché rien va plus. Ma di fronte a questa cefalocommedia, nell’era emancipata del post-tradimento, Giuda e tutta la catena dei suoi discepoli suonano come anacronismi. Oggetti, semmai, di un’estenuante ermeneutica senza sbocco, come Oz lascia intendere. Forse il mal di vivere risiede proprio nella domanda “Chi siamo, da dove veniamo?”. Siamo tutti quanti teste blindate in quella obesa domanda, teste discese in una radura salinizzata dell’essere…
“Muoviti, scendi con me a fare il bagno, ammesso che quell’acqua sia reale”. Desideriamo uno schianto qualsiasi, sbattiamo la porta uscendo.

Ed ecco lo squarcio di mare facciuto. È vero: adesso che le osserviamo da vicino, le teste galleggiano e sembrano perfino distribuire protuberanze intorno, parvenze medusee di gambe e braccia tese in anelito. L’essere con l’e maiuscola in aspettativa, le sue questioni vicarie negli spogliatoi. Non sono certo filosofi le persone in posa ironicamente ek-statica che punteggiano questo spazio-tempo murato, soltanto borghesi venuti qui per purgare il corpo. Sbarazzarsi di psoriasi, acni, cicatrici, rughe devastanti. Contrappunti cosmetici al mal di vivere. Impiastricciarsi di sale e asfalto, vagheggiando stupende architetture del sé. Qualcuno si è portato in acqua l’ombrellone, qualcun altro giornale e telecamera, consapevole che qui ogni cosa sta su. E i movimenti? Bracciate-boomerang. Sporgersi un po’ a destra un po’ a sinistra dal proprio loculo, ripiombare di nuovo al centro. Emilia, ottima nuotatrice in circostanze migliori, se la cava con capriole moderate e cantabili. Spingere acqua come fosse montagna, questo compete a me.

Forse quell’affiorante immobilità è glossa postrema, appendice lasciata al Vecchio Testamento, allegoria vivente della statuificazione data in sorte fin dai primordi all’uomo-imago Dei. Yoram ci aveva avvertiti: “Ci troviamo nella regione di Sedom-Sodoma, ma della città distrutta dalla collera di Elohim non resta più nulla, a parte le concrezioni di sale e fosforo”. Enigmatico, da non venirci a capo, l’episodio della moglie di Lot, che infranse il divieto dell’angelo di voltarsi verso la catastrofe della città maledetta, verso il cerchio di fuoco delle domande insostenibili: “Ma la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale” (Gen.19, 24-26). Non voltarti, Lot, non voltarti, Orfeo! Questo divieto infranto, replicato nei millenni, forse è il più sottile, subliminale contrassegno d’esistere. L’esistere nel voltarsi verso l’improbabilità d’esistere.
Per qualche lunghissimo minuto associati all’anonimo gruppo, passivi in sospensione sull’acqua plastica, piovuta da altro pianeta. Ci viene a noia presto. Tornati a proda, il nostro corpo odora di balsamo. Bisogna però scongiurare corrosioni cellulari in agguato, rompere oscuri determinismi chimici, correre alle docce. Rapido eppur tenero declinare del sole, i villeggianti riprendono a sciamare. Ci aspettano pastrami, falafel e focaccette al coriandolo, nella piccola trattoria con la sua passerella che entra in mare e scompare. Occorre mettere in conto un long drink. Prima di coricarci, festeggiando il quarto di luna calante, giochiamo a tirarci addosso i cuscini.

 Intermezzo onirico, labirintico risveglio

 Strisciamo nella pre-torba. Immagini morbide di morte serpeggiano tra le meningi, il pulviscolo intasa i timpani, si preparano scatti sinaptici sostitutivi. La palta confina con le tomaie cerebrali, diventa il loro torbido confine. Su di esse cala una cuffia intasata di cacofonie ghiaiose, che volgono in gutturale sospiro. Fossimo almeno su terre. Trasciniamo, lottando col fango, un rugginoso carro (forse) stipato di attrezzi. Vorremmo pregare e in pari tempo bestemmiare. Sul carro spira vento acre, non ne conosciamo provenienza. Fa stridere impugnature ma è scomparso il corpo dell’arnese, vanga o piccone che forse, di malavoglia, un tempo usavamo. Del lumacume invischia le nostre affondanti calzature, afrore di mollusco attenta le zone alte del fortino corporeo, o quel che rimane di esso. Sentiamo il risucchio delle gambe nei calcagni, il cigolio cadenzato delle vertebre dorsali, nessuna delle quali sta ferma al suo posto. Squittio in sordina. Si formano intercapedini. Tra le vertebre passa un volo di pipistrelli, finché ci prende voglia arcana di separarci da noi stessi, gridiamo “aiuto” al dio bendato che preme sulle cuffie. Il carro si arresta al limitare di una massa di organismi violacei, si svuota. Si svuota di noi, felici.

                 Felici perché il nostro dissolversi, per quanto accumuli densi vapori e caligini, è corollario di vita. Contenti di trasformarci in riserva paludosa, biotopo dal volto cangiante. Siamo impasto di rane e canne elaborato da un ventriloquo in noi vento notturno, porzioni di prolungamento palafitticolo, magma da supporto a cemento armato
in espansione, tenero albergo Hered
               con camini e camere
                                    ardenti, verso cui
                                                            esaliamo

 La cavità

                            Alla vendemmia ferita di noi morti non satolli
                            portaci un vassoio di locuste in allegria,
                            impenitenti dal tempo del deserto.

                                                                                            Emilio Villa

 

Locuste non incombono, o solo su display mentale. Voli di storni sì, appena visibili in lontananza, le ruote affrontano, rimodulandole, placche elevate e falsopiani. Qualche raro giuggiolo e palmizio, oltre a rabberciati, spinacciuti cespugli non identificabili. Yoram, taciturno, si limita a segnalarci il passaggio di due ieratiche cicogne delle steppe. Probabilmente domani avrà qualcosa di meglio da dirci. La sonnolenza postprandiale è vinta dalla certezza di avvicinarsi alla regione di Makhtesh Ramon, il cratere spento.
È curioso come, percorrendo un deserto, l’individuo tenda a rompere i ponti con lo spaziotempo reale, l’occhio si sfogli e sfarini, obliteri il generico panorama esterno, si arrotoli nelle celle disabitate dell’io. “Veni creator Spiritus/mentes tuorum visita”, supplico tra me e me, cercando un vincastro nella misterica preghiera di Rabano Mauro. A poco a poco, quasi timidamente e senza violenza alcuna, il deserto ritira al viaggiatore il pensiero – passaporto inutile per questo imperscrutabile faccia a faccia – e se lo serba in pegno. Gli offre, per risarcirlo, una tabula rasa, il vuoto del ricominciamento, le campate dell’ascolto e della responsabilità. Silenzio da decifrare, ma nell’attesa di un codice che per consuetudine ansima, stenta.
Emilia è concentrata su Giuda, al capitolo dove si parla dell’esodo di Shemuel: “Qualche mese prima aveva letto sul giornale di una nuova cittadina che stavano costruendo nel deserto, sul bordo del cratere di Ramon. Non conosceva anima viva lì…”, e aggiunge a voce alta: “E noi stiamo proprio per arrivarci!”. “Vi state familiarizzando col Neghev?” interviene con discrezione Yoram, “peccato siate venuti in tarda primavera. Per capire il senso profondo del deserto, almeno secondo noi ebrei, è indispensabile mettere in relazione la sabbia con la tenda. Se ci tornate in autunno potrete partecipare al Sukkot, che è la Festa delle Tende o dei Tabernacoli. Rimemora e celebra l’erranza degli Israeliti nel deserto durata quarant’anni, prima di raggiungere la Terra promessa. In quel periodo, appunto, essi vivevano in tende o capanne. Per voi, beh, ora c’è il lussuoso albergo Tiféret… immaginatelo una tenda di pietra, seppure dotata di conforti elettronici. Buona fortuna, vengo a prendervi domani”.

Nel cuore dell’altopiano la pionieristica, poco attrattiva città di Mizpe Ramon si snoda alle pendici dell’enorme cavità, il Makhtesh Ramon, che sprofonda per quattrocento metri di collera divina e asteroidea, mandando in polvere mappe e piani cartesiani. Prosecuzione filosofica, replica lavica del Mar Morto. L’avveniristico albergo Tiféret: eccolo svettare, strutturato in moduli abitativi simmetrici, e in sostanza niente male dal profilo archi-teatrico. Ogni sua suite dispone di piscina, collocata sotto l’ampio balcone. Aggetta spavaldo sul cratere, costringendo per così dire gli ospiti a mutarsi in ossessivi fruitori di vertigini, a trottolare nottetempo con turbini giallo-ocra. Ramon multiprospettico, palestra di sguardi rientranti, onirici. Il convesso sistemato a bivacco sul concavo, carapace frenato sull’orlo dell’abisso. Comunico a Emilia, che non appena riposta la valigia sul letto, impaziente, vorrebbe sgranare

                 sgranare il rosario dei gradini e toccare uscio, incamminarsi sui ciglioni aspri e slabbrati del paesaggio ammiccante oltre la finestra – comunico a Emilia un pensiero d’allocco: “Ci troviamo in una proiezione distorta dell’eternità, nel suo rassicurante simulacro postmoderno”. “Ave, cervello in tilt”, conclude lei. Le replicherei volentieri che ogni punto di vista umano, il mio il suo, è solo un infimo frammento

                 un infimo frammento di quel deserto occhiuto che si sbriciola in noi da sempre, coronato da un bianco che nulla emana e nulla trattiene, il metafisico bianco delle pagine bianche. Che siamo giunti a un sito dove l’interno non si distingue dall’esterno perché, come dice Edmond Jabès, “Il dentro e il fuori sono soltanto la parte arbitraria della divisione di un infinito-tempo, per cui ogni minuto rimette costantemente in causa il centro”. Centro e

soglia a piacimento. La soglia simbolica di tutte le case d’Israele, dove accanto alla porta d’entrata trovi un astuccio metallico contenente la Thorà. Domestica voragine in forma di spilla, fissata al muro come un geco incolore. Parola divina che si occulta per difendersi dalla violenza di un mondo autarchico, fiero del proprio ombelico, che ha ormai ripudiato il nomos della soglia.
Scrutato da presso, nella sua evidenza geologica, il cratere non presenta granché a parte il fascino crudele del dislivello: una lunga faglia piatta, si dice popolata da feroci ma invisibili leopardi. Il cratere ripercorso nella rêverie, invece, gola frastagliata e gravida di effetti ottici, è chimera siderale. Basta un capogiro, un lieve sbalzo di pressione, e inquiete sagome si levano.
Saliamo la sterrata, breve tratto. Ci teniamo per mano, avanzando con le scintille negli occhi, folletti di fuoco estromessi dalle mobili soglie del circostante. Improvvisiamo una ronda intorno alla gran bocca defunta che veglia su di noi. Sfaccettature di panorama polimorfo. Nervature, ripiegamenti, fenditure e spuntoni di roccia si mutano in spire, quasi volessero avvolgere fettine d’universo tornate d’improvviso diafane e imponderabili, umida insorgenza.
Alle spalle il guscio sonnacchioso del Tiféret. Modesti esercizi d’equilibrio: lanciamo ciottoli nella gran buca, oh non piombano, scendono come piume! Un sorriso, poi qualcosa succede. La buca si sta riempiendo di tende rotonde, o forse sono altra cosa, distanza inganna. Che siano le testoline già conosciute da noi nel Mar Morto, consegnate per un attimo fuggente, ora, a lave e basalti? Cuffie d’uomo che voleranno via, e qualche astuto falcone di passaggio proverà a intercettarle. Si alza, improvviso, il vento roditore del crepuscolo, torniamo sui nostri passi, rientriamo nell’effimera tenda abramitica, per un pugnetto di ore.

Ospitalità, solo fisico passaggio, transito di anonime atmosfere. Nella sua sciagurata maestà il deserto ti invita a un simboleggiare impotente. Accumulo di tracce che non hanno direzione, orientamento. Attimi molli, subito abdicanti nel cortile delle nostre emozioni. Forza della terra nuda che ti trattiene e nel contempo espelle dal suo grembo, ti getta nella specchiera della disparizione. Ora il tramonto getta bagliori obliqui, il languore vesperale si ripigmenta, straterelli di tinte friabili che volgono al cupo, e allora perché

                 perché rimanere così a lungo in questa camera? “Vieni, corri sul balcone”, la voce di Emilia mi scioglie dal torpore, “ma non dire una parola”. Lì sotto uno stambecco del deserto, occhi bruni e corna alpestri, attratto dal richiamo dell’elemento vitale, si sta abbeverando alla piscina. Assorto, non si cura di noi. “Come la cerva sospira le sorgenti dell’acque, l’anima mia ti desidera…” (Salmo 42). Icona diafana di terra, il suo esilissimo invìo di luce maculata ci accompagna giù per la scala.
E domani, nel vortice del tempo, questo giorno sarà un giorno qualsiasi trascorso, una locusta errante.

Pagina di muro gerosolimitano

Gerusalemme vecchia. Un gioco di incavi incommensurabili. Fumata eterna di rovine, i dadi da secoli gettati nello sguardo di hazard, con l’ardore di furia ristoratrice. Ognuno di noi freme, vergognandosi di portarvi un simbolico cartiglio. Quel terreno non ha nome che ne inquadri topologie stanziali, il suo esser lì è un gioco di vele, ogni pietra emana un oriente diverso che si annera allo sguardo.
Hakotel Hama’aravi, tempio di Salomone. Parete il cui duro sasso piange, e tutt’intorno stanno pagine di un libro. Assonometria cupa, cucita nel provvisorio aperto. Pagine non in ascesa non in discesa, nubili èsche. Viaggiano per tramite di aere fermo, direzione informulabile, formano alta piramide dalle cento facce-fogli. Facce, altrettante ecatombi? Scorze che procedono, camminano in zone ignote della mente, poi nell’oscurità convergono. Portano tracce di calde, arcane rivelazioni. Ostinatamente informulabili.
Emilia ed io avevamo passeggiato su una scorza di tappeto. Tappeto, lungo fulmine piatto, mormorativa lingua di soli nodi dipinti, fonemi avvolti ciascuno in se stesso. Inabili a formare frasi compiute. Tappeto come rotolo consunto dagli eoni, libro di lentissime stille. Dona flusso, perché di sicuro generato dall’albero del pianto e della conoscenza.
L’aveva scoperto, Emilia, presso un rigattiere sulla Via Dolorosa. “È fatto con tefillin tenuti insieme con la colla. Non è stato concepito per voi goim, ve lo vendo per esigenze di commercio, ma non parlerà a voi, non vi porterà nei luoghi dell’Altro, ne avrete solo l’illusione”.
Tappeto-libro a spiccare aspro volo. Che tuttavia si smembra nel transito. Diviene per un attimo, prima di desolarsi in cenere, prima di venir assorbito dalle torride lastre murali, un corpo corale. Cento cantillazioni per fessura, cento danze di schiene e lombi, ordinate calligrafie di gesti pendolari. Sono i supplicanti in nero, sotto pellicciosi copricapi chassidici. Veniamo abbordati da un rabbino coperto di balsami: “A causa delle mura che hanno abbattuto, siamo seduti solitari e portiamo virgole tristi nel muro”. “Si spieghi meglio, signore”. Il rabbino se ne va. Una parte di noi (forse il cuore?) resta sospesa,

                 sospesa dentro una faccia-cupola a due fori. Ci sentiamo strozzati da pagine e pagine, assediati da punteruoli di scritture. Ci percepiamo anonimi fori, lacune. “Questo prender le distanze”, dice Emilia pensando al rabbino, “forse è un paradossale invito a colloqui di natura trascendentale, oltre i nostri corpi prigionieri della Storia”. “Ma ne avremo tempo, ne avremo facoltà?”, rispondo.

Decifriamo su nuvola che convoglia alla Spianata un nastro di parole lungotirate: “Muore imitando l’astore notturno vibrante nelle intercapedini,
per altre vie di fame si è giocato il midollo
e dentro la campana di bronzo
che i martelli picchiano
per farla suonare
ha incontrato il dolore orientale, la sillaba inudibile, ha ingollato i semi della grande dispersione”.
E dall’altra metallica bocca del nastro: ““Gli assi del mondo s’incrociano in un ventricoloso epicentro, nell’arco calvo di una campana spunta il batacchio-labirinto. Nessuna Scrittura ne riprodurrà il suono”.
Dice un fedele, intabarrato nel nero, sotto il peso antracico del copricapo: “Portiamo fogli e fogli e fogli, ma non è che un modo per confermare lo zimzum”. Gli risponde il vicino: “Ma questo estremo sperpero sottintende un’attesa. Abbi fiducia nel ricongiungimento”. Commenta un terzo, tra sé e sé: “Non sanno che l’ein-sof, l’irrappresentabile, è il nostro Dio per sempre celato. Israele vive oggi nella prosperità, è vero, ma è la prosperità fallace di una materia cui manca la Cifra”.
Dietro a quell’enigma di pietre ammonticchiate che ci sovrasta, siede un grande occhio. Da spiragli fuoriescono rantoli di shofar. C’è, tra gli astanti, chi da fonda tasca toglie un cartiglio, povero angolo

                 povero angolino giallo vergato. Lo scuote per sincopi, lo preme nella strettoia, blocco di Hakotel inghiotte. I megasassi lasciano defluire lacrime d’issopo e di cappero selvatico, arcaiche sferette di rugiada. Quello che intorno a noi declina è scorza. Ma è anche ciò che conta: “Dal punto supremo al confine delle cose ogni scorza è un cervello. Una nell’altra, cervello nel cervello, scorza per scorza” (Zohar, Berechit I). Il rosso tappeto della bocca mia e di Emilia, la lingua del fiato danza qui. Tantissimi tropismi di scorze, verso il vertice diafano di quella piramide.
E intanto i corvi hanno ripreso i loro voli intensi, impenetrabili. Gracchiano, eppure quei versacci non sono che una controfirma del silenzio.
“Torniamo indietro, Emilia, alla porta di Giaffa ci aspetta Yoram, la nostra guida”. “Ma perché non ci ha accompagnato al Muro del Pianto?” “Bella domanda, perché non ci ha accompagnato?”

Gilberto Isella