Corrispondenze sul numero di D-o 

Marzo 2021 –

Pi Greco: il teorema del delirio è il titolo dell’opera prima (1998) dello statunitense Darren Aronofsky. Questi viene da una famiglia ebrea di origini russe e ucraine. Nel 2008 vince il Leone d’oro per il miglior film alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia per The Wrestler. Nel 2011 riceve la candidatura all’Oscar al miglior regista per Il cigno nero. Nel 2014 dirige Russell Crowe nel kolossal Noah.
Ritorno al film del 1998: un piccolo capolavoro. Disegnato da un bianco e nero spietato, fumettisticamente contrastato, con la scala dei grigi ridotta ai minimi termini, la pellicola narra di una follia che monta. Max Cohen (Sean Gullette) è un matematico solitario e geniale che vive in un angusto appartamento a New York. L’ossatura del film si basa sulla ricerca matematica che lo spinge alla iper-razionalità scientifica, in un afflato che tende all’infinito e alla verità divina. L’uomo è periodicamente tormentato da atroci emicranie. I numeri sono la sua vita; non conosce altro se non la ricerca di una serie di cifre che collegherebbero ogni elemento del creato, dalla Natura all’andamento della borsa, per arrivare ai misteri del pensiero ebraico. Cohen incontrerà infatti un giovane ortodosso, segaligno e manipolatore; questi gli spiegherà che, con un gruppo di compagni, sta lavorando alla ricerca del numero di D-o. Lo scenario della ricerca del protagonista si allargano grazie alle fascinazioni offerte dal giovane barbuto, di nero vestito. Non mancano i colpi di scena che si alternano alla narrazione monocorde e quasi automatica della vita di Choem. In un caso ne sono protagonisti gli scagnozzi di una probabile multinazionale dell’informatica che vorrebbe accaparrarsi le ricerche dello studioso. In un altra parentesi spicca la figura di un anziano amico, forse un insegnante, che, senza mai averlo dichiarato apertamente, stava rincorrendo anch’esso le 216 cifre del codice di D-o. Nell’ebraico esiste un raffinato collegamento che porta all’interpretazione numerica di ogni lettera o parola. Il codice di D-o, secondo alcuni studiosi, sarebbe stato contenuto nell’Arca della Testimonianza. In rari casi, il sommo sacerdote, dopo lunga preparazione, era l’unico che poteva accedere al numero; l’unico che, attraverso il nome uscito dalla traslitterazione dei numeri, aveva facoltà di collegarsi all’Altissimo. Non è dato sapere di quelle antiche, leggendarie conversazioni. Questa, però, è la magia autentica nella trama del film. La fine, un po’ burlesca, un po’ granguignolesca, non certo sbalorditiva, tanto da essere possibile per lo spettatore prefigurarla con un certo anticipo, è solo un taglio conclusivo senza storia intrinseca. Il succo sta negli ottanta minuti del film precedenti, scanditi dall’ossessione dei 216 numeri.
E veniamo alla morale del racconto, che scorre in filigrana nella sequenza finale: a che ti è servito tutto questo, sembra chiedere un folletto all’uomo semilobotomizzato, senza più la pena, degna di Giobbe, dell’emicrania lancinante, ma senza più la forza di cercare alcunché tra numeri e lettere.
Questa breve nota, venuta qualche tempo fa dall’ennesima visione dell’opera di Aronofsky, non ha pretese particolari. La pubblico in virtù della coincidenza con un testo dell’amica Sonia Caporossi (tale testo sarà contenuto nel suo libro di imminente uscita Opus Metamorphicum – A&B Edizioni) che si lega, curiosamente, alla tematica qui accennata del numero di D-o. Un testo sorprendente, sciolto, straniante, con una chiusa che casualmente (a meno che non sia un piccolo miracolo) echeggia la parte finale della nota cinematografica di cui sopra.

 

Fibonacci
un monologo
di Sonia Caporossi

La foto che ritrae l’autrice è di Dino Ignani

La facoltà che mette in moto l’invenzione matematica 
non è il ragionamento, bensì l’immaginazione.
A. De Morgan

Ho trovato il numero corrispondente al nome di Dio approssimandolo per 1,618. Il phi.
Tale numero irrazionale è la legge sottesa all’ellissi colloidale che struttura la resina materiale distillata del cosmo, è un’approssimazione divertente che somiglia, nella forma, a un Totenkopf dalle tibie avviluppate a chiocciola sull’elmetto di uno SS che difende e scorta nei comizi tantrici l’Architetto. È un’aurea mediocritas, un abbaglio della metafisica, l’invenzione a posteriori della legge universalmente riconosciuta dell’armonia del mondo. Quando Ippaso di Metaponto fu cacciato dalla Scuola di Pitagora per aver raccontato ai quattro venti l’incommensurabilità del rapporto scandaloso fra il lato e la diagonale del quadrato, il phi era già noto agli adepti, che se lo tramandavano come un pettegolezzo da palazzo reale, da tenere nascosto, misteriosamente taciuto. Impossibile, per un vero matematico, non rendersi conto di dov’era, già allora, il phi: traspariva dai cinque vertici e dai cinque lati del pentagono, contenitore geometrico sacrale in cui si inscriveva bellamente l’abbozzo di spirale avviluppantesi nelle braccia lineari kundaliniche della necessità, somma perfetta del Maschio e della Femmina, matrimonio legalizzato del 2 e del 3, in cui il sommo maestro, Pitagora dalla coscia d’oro, ai suoi tempi, disegnava una stella a cinque punte come simbolo della sua scienza – arte – magia; la quale dava luogo, figurativamente, a un pentagono più piccolo in cui a sua volta inscrivere un nuovo pentagramma che al suo centro evidenziasse un pentagono ancor più piccolo al cui interno di nuovo poteva esser tracciato un altro pentagramma in cui ritrovare un pentagono sempre più piccolo e così via, un due tre stella! Dalla figura data a quella minore senza mai poter arrivare alla sua espressione minima spaziale, neanche solo pensata, nell’impossibilità di una conclusione planare e sviluppata, perché ulteriormente divisibile in un incessante regressus geometrico spaziale all’infinito; senza remore senza limite senza stacchi di dimensione, nell’ondeggiare fluido, appena appena scomposto da un vago mal di testa e di ragione, verso i segreti del principio fisico e metafisico della matrioska: una proporzione geometrica che non può apporre sull’ultima pagina del suo trattato la parola fine, perché mostra e sottintende un fine teleologico insindacabile.

Come rapporto armonico nelle costruzioni architettoniche, la piramide di Cheope non si fonda che sul phi, il Partenone nell’Acropoli di Atene non si fonda che sul phi, le proporzioni scultoree delle Cariatidi dell’Eretteo non si fondano che sul phi. E quando, nel Rinascimento, qualcuno pensò e provò a ritentare l’idea del classico metanaturale in quieta figura d’uomo o di donna, trovò che il phi poteva ancora a questo scopo rendersi utile. Le dimensioni statiche della Monnalisa sono in rapporto aureo, aurea è dunque, freudianamente, l’omosessualità di Leonardo, che in quelle fattezze bellatrici, più o meno inconsciamente, trovava lo speculum morale ideale di un’eugenetica ginoforme ritrovata, la quale nella spirale di ogni riflusso vaginale perdeva sé stessa nel lapsus di coscienza del buco del culo di un garzone, non già spiraliforme, ma retto e puzzolente come il vibrione colerico di un ratto tesseratto. Si dice di norma che, per Platone, Dio geometrizzasse; per Jacobi, Dio aritmetizzasse; per Krokecker, infinito finitista, Dio avesse inventato i numeri naturali, e tutto il resto fosse lavoro dell’uomo, checché il paradisiaco Cantor ne dicesse, oddio, beh, diciamo…più o meno nel suo insieme. Eppure, l’immaginazione è il metodo in prima istanza estetico, in secundis matematico, attraverso cui l’umanità da millenni si aggira intorno alla verità per approssimazione più in eccesso che in difetto, nella fuzzy logic di un ragionamento approssimato, per cui non valgono i principi di non contraddizione e del terzo escluso del biologo barbuto allievo di Platone che raccoglieva conchiglie spiraliformi sulla spiaggia di Salamina, nell’osmosi continua ed elettrizzante come lo shock di un’elettroforesi dosata male alle ossa del cranio di un genio, come la febbre di Thomas Mann in pieno sfogo di creatività, quando si rientra nel campo senza confini di un sistema aperto più platonico che aristotelico, supportato dal conforto inesauribile del metodo analitico che si oppone come sommo e battagliero contrasto al metodo assiomatico euclideo standardizzato.

La serie che porta il mio nome è detentrice della mirabile bellezza dell’eternità scalare: 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144…, di cui ogni numero risulta essere somma dei due numeri precedenti, per i quali la successione frazionaria 1/1, 2/1, 3/2, 5/3, 8/5, 13/8, 21/13, 34/21, 55/34, 89/55, 144/89…, si approssima progressivamente a 1, 618 secondo una serie di questo tipo: 1, 2; 1,5; 1, 666; 1, 6; 1,625; 1, 615; 1, 619; 1, 617; 1, 6181; 1, 6180…, in cui si ritrovano gli intervalli musicali dell’unisono: 1, dell’ottava: 2, della quinta: 1,5, della sesta maggiore: 1,66, della sesta minore: 1,6, e così via di questo passo, di cui le fughe di Johann Sebastian Bach, le sonate di Mozart, la Quinta Sinfonia di Beethoven, la Sonata in La D 959 di Schubert sono esempi musicali in bella forma strutturale, sistemi aperti in cui la fine fisiologica della partitura, rappresa nell’inchiostro incrostato della firma in calce dell’autore all’ultima pagina, potrebbe essere considerata tranquillamente una terminazione arbitraria da parte del furbissimo compositore, se l’ascoltatore inappropriato e ingenuo, passivante negli orecchi come un fonografo scassato, riuscisse ad attivare, come mai del resto è accaduto, la percezione sensoriale del sublime matematico; se l’uomo sordo alle novità dell’intelletto e della sensazione riuscisse, insomma, a percepire i contrappunti come ciò che di fatto sono: la sequenza inesauribile di un incastro cosmico fonologico a cui il compositore ha dovuto decidere arbitrariamente di porre interruzione, per non perdersi nell’eterno della caduta a spirale, dalla scala di una vertigine hitchcockiana, di un’armonia che visse due volte come la faccia sostenuta da telamone di Kim Novak, senza possibile corrimano a salvare la mente. Dalla Società semisegreta di Lorenz Mizler, il cui testamento spirituale è l’incompiuta Arte della Fuga, allo stilema supremo del phi ci passa la Sagra della Primavera di Strawinskij. Avete mai danzato al plenilunio con la Sagra della Primavera? Batman di certo lo farebbe insieme al Joker. Di questa sublime opera Alberto Savinio una volta scrisse: “c’è ancora in questa musica, oltre una buona dose d’isterismo, anche quella malinconia, quella rassegnazione, quella orizzontalità che della musica russa fa un camminare perpetuo e senza meta”. È nel phi il suo segreto. Nijinskij ancheggiava senza posa per il fiasco clamoroso al Theatre des Champs-Elysées quel 29 Maggio del 1913, quando il pubblico borghese rumoreggiava su quanto ci fosse di demoniaco e irrappresentabile in quelle pose antiplastiche, volutamente sgraziate e sessuali di ballerini pagani, in quelle note antineoclassiche del fagotto d’apertura che occhieggiavano all’avanguardia militare di un mitizzare già postmoderno ancor prima di essere contemporaneo. Dopo qualche annuccio, la Sagra divenne vulgata per i bamboccioni americani, condita e colorata, da Primavera che era, come una pizza alle Quattro Stagioni, inserita ex abrupto così, dal nulla, nella colonna sonora di Fantasia, con un topastro del cazzo disegnato da antipatico, dalla coda ondeggiante come l’indice della borsa di Wall Street, ad apologizzare tutti i venerdì del mondo tornati bianchi per via dell’Ace, e la sua vocetta da ermafrodito ibridato a basso regime di testosterone, a regger le fila della consacrazione universale di una spavalda partitura resa impietosamente cibo pedagogico per gli asili, per maestrine dalla penna tutto fuorché rossa, che non se lo aspettavano, non se lo aspettavano davvero. Del resto, nell’America posthooveriana, se solo li avessero saputi prevedere gli andamenti del mercato azionario! Se solo avessero saputo gestire l’ordine ciclico naturale che governa il fluttuare a corsi e ricorsi dei prezzi secondo la teoria di Elliott delle otto ondate principali, incastrate perfettamente in otto ondate intermedie, scomponibili a loro volta in otto ondate minori di primo, secondo, terzo grado, anche loro soggiacenti al phi!

E poi via con l’elencatio, a ritrovare l’infinito nel finito, la necessità nel contingente, l’assoluto nel relativo! L’accrescimento biologico di alcune specie come er broccoletto romano, “sissignò!”, il nautilo degli abissi e la conchiglietta del paguro sulla spiaggia che raccoglievo da bambino, la spaziatura tra le foglie di uno stelo e la disposizione dei petali e dei semi del girasole, il girotondo delle scale dell’Abbazia di Melk, i quadri a incastro ritmico di Mondrian, le forme perfette e compiute della Venere del Botticelli, le giravolte degli uragani, dei banchi di bassa pressione, le eliche coniche delle corna dei bovidi artiodattili che fanno “muuu, muuu, muuuuuuu!”: dipendono dal phi, sono disposti dalla spirale concettuale del phi, nel phi e per il phi ritrovano ordine, rappresentazione, armonia. Avete mai pulito un cavolfiore prima della bollitura con l’arte e la compostezza di una casalinga analfabeta del Lazio, come insomma faceva quella santa donna di mia madre? Ha la grazia e la compostezza di un frattale ricorsivo dell’insieme di Mandelbrot, nella dinamica ridondante e mergiforme della costante di Fidia, come esempio culinario tratto dal libro galileiano della Natura, scritto per voi e per tutti in caratteri matematici tratti dall’alfabeto greco mescolato a quello avicennese. Ed ero anche annoverato come un matematico geniale, prima di mettermi a calcolare quanti conigli, infibulandosi indiscriminatamente, nascano dalle relazioni tantriche di un’aia degna di Playboy, ponendo astrattamente che: 1) la prima coppia inizi a generare dal secondo mese di età; 2) generi una nuova coppia ogni mese; 3) non muoia mai, come in un pornovideogame.

Novem figurae indorum hae sunt 9 8 7 6 5 4 3 2 1 Cum his itaque novem figuris, et cum hoc signo 0, quod arabice zephirum appellatur, scribitur quilibet numerus, ut inferius demonstratur. A me fa piacere che si ricordi sui libri di testo l’incipit del mio libro dell’Abaco, ma non capisco perché debba avere più notorietà di quell’incredibile paradosso della tromba di Torricelli, paraboloide circolare il cui volume finito contrastava con la folle concezione di un’estensione infinita, che per Hobbes risultava incredibile, un’eccezione che non veniva a confermare la regola, una bizzarria freak del sistema matematico pericolosa e fuorviante; al contrario della mia sezione aurea, rassicurante e bonaria, materna e degna di un adagiarsi non tanto intellettuale quanto lombosacrale sul triclinio del mondo, dato che alla mia scoperta (alla mia!) sembrava rispondere l’intera struttura esemplificativa di ogni paradigma ontologico conosciuto, se anche la galassia M74 si arrotola a spirale come la kundalini del Cosmo in sette fiori di loto circostanziali che s’illuminano d’immenso, se anche la spirale a doppia elica del DNA umano mi ricorda un vortice condensato di simmetria mirabile, all’interno del quale tutti i segreti della vita pare trovino pavento, spavento, portento.

Insomma, per farla breve, vi dicevo. Ho trovato il numero corrispondente al nome di Dio approssimandolo per 1, 618. Il phi. Tale numero è stato ottenuto tramite un calcolatore elettronico logaritmico a cui ho avuto accesso dal sito internet di un’università americana ignara della mia hackeristica intromissione, che ha rivelato il Sacro Nome di Dio secondo Me. Ho voluto ricercare la sequenza numerica più alta che risultasse digitabile in un calcolatore, e sapete che cosa è successo?

Udite udite! Pazzesco tutto questo!…è una scoperta incontrovertibile, i miei occhi stentano a crederci, ancora non mi sembra possibile. Gettate un’occhiata qui sotto:

fib(1035)=896855873261869823317585490672419913441416280194488734450908591082280298767164282402506027321894253354008061308196734130621842841735637219398210673120830879852502618853593935260610288079721662682793688325417797617090; trattasi di 216 digitazioni in 1.031 secondi di tempo quantico infinito, ciò che è stato necessario alla macchina per riflettere sull’incommensurabilità del nome di Dio. E a un certo punto il calcolatore logaritmico è impazzito, la sequenza numerale è uscita fuori dai gangheri, tutte le costanti del mondo si sono isterizzate, come colte dall’incostanza di un disturbo somatoforme da fervide femmine in calore. L’universo matematico non ha trovato risposta certa e definitiva, è stato colto da tarantismo denaturato, ogni cosa davanti agli occhi ha cominciato a ballare senza posa, senza forma, senza estensione. Nell’utero uretrale di un’eresia erogena ha cominciato a piangere il mio cervello percosso come un martello, nello scolastico tentativo di rintracciare il pelo dell’uovo mi son sentito discolo a essere soltanto un uomo. Inutile la mente umana che non riesce a concepirlo, inutile il linguaggio dei numeri che non riesce a disegnarlo, inutile la macchina che non riesce a computarlo. Scoprire il nome di Dio e non scoprirlo sono la stessa identica operazione algebrica. Ho trovato il numero corrispondente al nome di Dio approssimandolo per il phi.

E ora che cazzo ci faccio?
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Pubblicato il 28 ottobre 2018 da Critica Impura
Pubblicato precedentemente su Cadillac Magazine n. 6 Anno II, Luglio 2013.