Mi è capitato di vedere sui social due immagini metaforiche: una del desiderio, l’altra dell’amore. Il primo rappresentato dal gesto di cogliere un fiore, il secondo dall’innaffiarlo con cura. Eppure sarebbe arduo ridurre l’amore a una sola dimensione: esso è, insieme, dono, brama, cura, passione, sentimento, emozione e altro ancora. Né ci aiuterebbe molto la distinzione, pur preziosa, tra innamoramento e amore.
Eugenio Colorni
Esso è anche, forse soprattutto, un corpo a corpo, reale o simbolico, con l’altro. Un’esperienza forte, coinvolgente, viscerale di incontro con l’alterità.
Ai liceali, talora anche a quanti tra loro meno sono inclini allo studio, i versi del grande poeta latino Catullo destano curiosità e interesse: l’odio come il volto ombroso dell’amore, ad esempio, la gelosia nei confronti del “bancarottiere di Formia”, la distinzione tra amare e bene velle. Quante volte abbiamo detto, o ci siamo sentiti dire, frasi del tipo: “ti voglio bene, ma non ti amo”.
Ecco, Eugenio Colorni, uno degli autori del celeberrimo Manifesto di Ventotene per l’unità federale dell’Europa, duemila anni dopo sembra raccogliere quella sfida. Per lui la passione amorosa è così intensa, così sensata (“la cosa più seria e importante della vita”, così definisce l’amore) da capovolgere la prospettiva: l’alterità, la differenza, da ostacolo, da impedimento, diviene occasione per rendere ancora più pieno, più alto, più profondo lo slancio amoroso. “Non non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, ma fa all’altro ciò che l’altro vorrebbe fosse fatto a lui. Non per conoscere gli altri guarda dentro te stesso, ma per conoscere gli altri guarda gli altri”. E ancora: l’amore è “ciò che ci avvicina ad un altro essere, dimenticandoci di noi stessi e desiderando che esso viva nella sua essenza profondamente diversa da noi” (Leo Solari, Eugenio Colorni. Ieri e sempre, Marsilio, Venezia 1980, pp. 23 e 25).
Non un generico “voler bene”, non la semplice “empatia”, bensì una vicinanza, un’intimità, quasi una con-fusione con l’altro, proprio nel riconoscimento della sua diversità. E in ciò l’autore, ricordando molto da vicino Emmanuel Levinas, scorge l’apertura all’imprevisto, all’inatteso, all’inopinato. A quello che non possiamo “programmare”. A ciò che, dell’altro e, in fondo, di noi stessi, non “controlliamo”.