Elogio del pudore – Danilo Di Matteo
Maggio 2021 –
Della parola pudore non è del tutto chiara l’etimologia. Vergogna significa invece, letteralmente, timore di essere messi alla gogna. Eppure il pudore finisce per rappresentare un aspetto della vergogna. Vergogna come pudore, dunque, oppure come onta. E una sorta di ambivalenza sembra attraversare tale moto dell’animo. In casi estremi, vissuti strazianti di vergogna, in soggetti ipersensibili, possono contribuire a suscitare crisi psicotiche e deliri ( Cfr. A. Ballerini e M. Rossi Monti, La vergogna e il delirio. Un modello delle sindromi paranoidee, Bollati Boringhieri), Torino 1990. E Jean-Paul Sartre rileva come l’esistenza di ciascuno sia caratterizzata dalla presenza assidua, persino nella solitudine, dello sguardo altrui. (Cfr. D. Vinci – a cura di – Il volto nel pensiero contemporaneo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2010) Quegli occhi ci osservano e, pur se ne siamo spesso inconsapevoli, ci procurano imbarazzo. Del resto è noto che il cosiddetto linguaggio non-verbale – soprattutto la mimica facciale – rappresenta una porzione notevole della comunicazione umana. Di solito si rileva anche, però, che di messaggi assai ambigui e di non univoca lettura si tratta. È vero. Ma in almeno un caso lo stato d’animo trapela con chiarezza, malgrado il nostro desiderio di occultarlo: parliamo del volto rosso di vergogna. Tanto che – come non di rado accade la patologia è solo l’altra faccia della nostra esperienza – vi sono persone che soffrono di ereutofobia: la paura esagerata di mostrarsi rossi in volto. Forse perché quel rossore tradisce la nostra vulnerabilità emotiva e, insieme, testimonia l’impossibilità di un controllo completo di noi stessi. Più che mai evidente in tal caso è la natura relazionale del disturbo. La fobia, più in generale, nasce come fobia sociale; o, se si vuole, è il suo carattere sociale a definirne l’essenza. È come se il disagio riuscisse a esprimersi in tante forme diverse, dall’imbarazzo al panico.
La psicopatologia, a onor del vero, non si è occupata molto della vergogna. Anzi: ha prediletto il “senso di colpa”, visto come uno degli aspetti preminenti del vissuto depressivo. E mentre il senso di colpa viene ricondotto al “Super-io”, la vergogna viene associata all’“Ideale dell’io”. Se la colpa risulta da una “trasgressione” (da qualcosa che si fa contravvenendo all’istanza morale), la vergogna scaturisce da una “mancanza” rispetto a un sé ideale. Ma il discorso può ancor più articolarsi. L’Ideale dell’io, nella sua espressione più sana, viene vissuto come non coincidente con l’Io. Fra l’Io e il suo Ideale vi sono uno scarto, uno spazio, una distanza. E l’Ideale dell’io offre così all’Io una meta alla quale tendere e che pure non potrà mai essere raggiunta appieno. Vi è una sorta di dialettica fra l’Io e il suo Ideale; vi sono un confronto e una tensione. E ciò consente anche di proiettarsi nel futuro e di temporalizzare l’esistenza (così forse la disarticolazione fra il passato, il presente e il futuro caratteristica dei fenomeni depressivi è legata anche a una disarmonia fra l’Io e il suo Ideale). Se però quello scarto non c’è o viene meno, l’Ideale dell’io tende a imporre un illusorio senso di onnipotenza. È lo scacco del divenire, del movimento; ed è il nubifragio dello spazio, del tempo, della percezione dell’altro.
Oggi il senso di colpa pare aver ceduto il posto a una deresponsabilizzazione diffusa e la vergogna alla spudoratezza, salvo riproporsi di tanto in tanto come onta mediatica. Siamo in troppi ad “aver perso la faccia”; non divenendo con ciò più spontanei, anzi: cambiamo con disinvoltura maschera, magari in nome dell’identità liquida. Finendo in tal modo per smarrire ciò che più intimamente siamo e il senso del ruolo o dei ruoli che ricopriamo. Come può un essere umano rinunciare al proprio volto, magari a un volto rosso di vergogna? Come può con tanta disinvoltura confondere pubblico e privato, fingere nella realtà e prendere sul serio la finzione? Come può scambiare in maniera tanto grossolana la sicurezza interiore e l’autostima, fondamentali per il proprio benessere, con l’esibizione, l’ostentazione, l’arroganza, rivelatrici in realtà di una più profonda fragilità?
Ecco: in un mondo nel quale la prepotenza delle immagini e il rumore (Cfr. i volumi della Collana Accademia del silenzio, Mimesis Edizioni). che sembra sopraffare le parole e i ragionamenti, quasi ogni giorno ci schiaffeggiano, la poesia pudicamente ci accarezza. Ci prende per mano e poi, magari, delicatamente ci lascia andare. Evoca anch’essa immagini, suoni, colori: a volte li crea. Penetra talora dentro di noi, scompagina le nostre alchimie emotive. Ma noi restiamo noi: con la nostra faccia, un po’ più pallidi o più rossi in volto, certo, però siamo sempre noi. Anzi: quell’assonanza, quella metafora ci rendono più simili a noi stessi; timidamente ci offrono aspetti nascosti di noi, un’emozione inattesa, un ricordo, un brivido nuovo, autentico. Uno dei segreti della poesia, credo, è nel pudore. E in fondo: come si può lambire l’altro, suscitare in lui passioni e pensieri se non rispettandolo, sfiorandolo appena, mostrando qualcosa e aspettando che egli scopra da sé ciò che ancora si cela?
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