Umberto Bellintani –
Il visionario della grande pianura –
di Deborah Mega
Gennaio 2021
Disegno di Umberto Bellintani (Archivio del Centro Studi dell’Università di Pavia)
Nell’ottobre del 2020, è stato presentato il libro La mia pianura vasta e sonora, curato da Stefano Iori e pubblicato da Gilgamesh Edizioni – La Corte dei Poeti. È un piacere dare spazio alle riflessioni di Deborah Mega sul poeta Umberto Bellintani, gentilmente inviate.
In occasione del centenario della nascita di Umberto Bellintani (2014), Passigli Editore ha pubblicato in versione integrale una nuova edizione di Forse un viso tra mille, prima opera del poeta mantovano, impreziosita da un importante carteggio tra Umberto Bellintani e don Primo Mazzolari.
L’opera era stata pubblicata a Firenze nel 1953 da Vallecchi e recensita da Eugenio Montale, il quale, commentando il fatto che Bellintani si fosse dedicato alle arti figurative e alla scultura prima di approdare alla poesia, aveva scritto: “Abbiamo così avuto uno scultore di meno e un poeta di più”. In seguito, nel Corriere della sera dell’8 settembre 1954, aveva aggiunto: “Bellintani, che vive in campagna, è un raffinato uomo di popolo, uno di quei poeti che sembrano essere saltati dalla Bibbia e da Omero ai più astrusi lirici stranieri conosciuti solo attraverso le traduzioni… spesso la poesia si rifugia in uomini come lui, non professionisti, senza le carte in regola”. Umberto Bellintani però le carte in regola le possedeva eccome, non quelle di regolari studi letterari ma quelle ben più rare di un’ispirazione e una creatività non comuni. Era nato il 10 maggio 1914 a Gorgo di San Benedetto Po, in provincia di Mantova e per tutti era figlio della “fiöla dal Maricàn”. Il nonno era, infatti, emigrato in Brasile e in paese era conosciuto come “L’Americano”, che è anche il titolo di una poesia tratta da Forse un viso tra mille. Nel 1932 si era trasferito a Monza per frequentarvi l’ISIA, Istituto Superiore per le Industrie Artistiche e aveva avuto come maestri Marino Marini, Arturo Martini, Pio Semeghini, Edoardo Persico. Della sua vocazione alla scultura e alla poesia dà testimonianza una pagina autobiografica: “Cominciai ad essere poeta forse troppo presto, mi pare fra gli otto o nove anni. Fu allora che sentii poeticamente che avevo le braccia e avevo tutto il resto; mi accorsi che avevano voce il silenzio e la solitudine, e l’avevano i campi e le acque; fu allora che sentii parlare ad erbe e fiori, e posai l’orecchio sul cuore degli alberi. E modellavo animali e animali con la terra gialla che mi dava la riva di un fosso, o la terra nera che mi davano i pressi di una chiavica. Poi passarono alcuni anni e allora forse compresi che vi era la possibilità di esprimere quel senso di dolce e di penoso e d’arcano che mi prendeva vagabondo per i campi”. Quella dolce stagione, nutrita di sogni d’arte e di gloria, si concluse presto ma il poeta vi tornò spesso in confessioni private agli amici e in diverse poesie, “Ci fu un tempo che ero Dio… Ora quel tempo di paradiso / si è già tutto frantumato / e io non sono più Dio”.
Bellintani visse anche l’esperienza della guerra in Albania e in Grecia, poi la prigionia in Germania e in Polonia, nei campi di lavoro di Görlitz, Dachau, Torn e Peterdorf.
Alla fine del conflitto, abbandonata la scultura per dedicarsi ai problemi della sua famiglia, dapprima insegnò disegno presso la scuola serale di Arti e Mestieri di San Benedetto Po, poi fu assunto come applicato di segreteria presso la locale scuola media. Dal confino di Gorgo non si sarebbe più mosso, alimentando il mito di una solitudine timida e scontrosa, sebbene alleviata dalle visite degli amici. In questi anni vince il secondo premio al concorso Libera Stampa di Lugano ex aequo con Vittorio Sereni mentre riviste come “Il politecnico” di Vittorini e “Paragone” di Longhi accolgono sue poesie.
Dopo la raccolta di versi Forse un viso tra mille, pubblicò Paria (a cura di Vittorio Sereni, Edizioni della Meridiana, 1955) poi E tu che m’ascolti (Mondadori, 1963). In Paria Bellintani denuncia la tragica condizione umana: “Poveri affaticati nelle membra, /servi della gleba, paria, / per noi la morte è riposo…/ Non siam che miseri lombrichi nella mota, / siamo concime, la ruota, la carrucola / e non v’è pena che noi non si conosca”. Nonostante il consenso critico pressoché unanime, Bellintani, probabilmente a causa del temperamento schivo e riservato, scompare dalla scena letteraria e, per trentacinque anni, non pubblica più nulla.
Solo nel 1998, poco prima della morte avvenuta nel 1999, escono due sue raccolte: Nella grande pianura (che comprendeva una cinquantina di inediti, riuniti sotto il titolo Un abbaino in piazza Teofilo Folengo, una selezione tratta da Forse un viso tra mille e tutto E tu che m’ascolti) in un’antologia a cura di Maurizio Cucchi edita da Mondadori e Canto autunnale (quarantacinque componimenti editi e inediti), a cura di Italo Bosetto per l’Editore Perosini di Verona. Non cessa tuttavia né di scrivere né di disegnare, espone anche suoi disegni in mostre organizzate da amici e intrattiene rapporti epistolari con letterati e poeti come Alessandro Parronchi, Valerio Volpini, Pier Paolo Pasolini, Gino Baratta, Cesare Zavattini e don Primo Mazzolari.
Viene studiato dal professor Joja Ricov, un italianista insegnante di croato e da Suzana Glavaš, docente di lingua croata che gli aveva dedicato la tesi di dottorato e successivamente avrebbe curato una raccolta di una settantina di poesie inedite regalatele dal poeta.
Nel 1996 Franco Piavoli gira il film Voci nel tempo al quale Bellintani collabora come comparsa in alcune sequenze e, a supporto della sceneggiatura, invia cinque poesie e un disegno. Nel 2004 il regista realizza Affettuosa presenza, un lungometraggio tutto dedicato al poeta, i cui testi sono tratti dalla corrispondenza, allora inedita, fra Umberto Bellintani e l’amico poeta fiorentino Alessandro Parronchi.
Protagonista della prima raccolta poetica di Bellintani è la pianura mantovana attraversata dal Po, non a caso, la raccolta edita poco prima della morte, dedicata proprio al pianeggiante territorio bagnato dal Grande Fiume, spinse il critico letterario Ermanno Krumm a definire Bellintani “il visionario della grande pianura.” Altri elementi ricorrenti nelle sue poesie sono i ricordi di giochi d’infanzia, di compagni di avventure, di scenari di guerra, di atmosfere mitiche popolate da animali esotici, gli stessi che rappresenta nei suoi disegni. Il critico letterario mantovano Mario Artioli parla di bestiario formidabile, costituito da animali della stalla e della strada, del cielo e della foresta.
La natura, in tutte le sue espressioni, è conforto alla fatica del vivere e al dolore dell’uomo e ad essa si guarda con sintonia profonda e con nostalgica tenerezza di sguardo. L’edizione Vallecchi del 1953 ormai è una rarità: così Passigli ha pensato a una nuova edizione, fortemente voluta dal Comune di San Benedetto Po e curata da Elia Malagò e Nella Roveri. La novità dell’edizione Passigli è, in appendice, uno scambio di tredici lettere (datate dal 1951 al 1957, in coincidenza con la fase storica della prima produzione di Bellintani) tra il poeta e don Primo Mazzolari (Cremona 1890 – Bozzolo 1959), figura importantissima del cattolicesimo sociale della prima metà del Novecento, definito “carismatico e profetico” per aver anticipato, nella sua predicazione, alcune delle istanze dottrinarie e pastorali del ConcilioVaticano II (non a caso fu molto apprezzato dall’arcivescovo di Milano Montini, futuro Papa Paolo VI e da Papa Giovanni XXIII). Tre poesie di E tu che m’ascolti, che Bellintani pubblicò nel 1963 per i tipi Mondadori, sono dedicate a don Primo.
Nella Roveri, scavando nel materiale della Fondazione Mazzolari alla ricerca di contatti con don Lorenzo Milani, trovò lettere di Bellintani e, dopo il ritrovamento di altre lettere a Gorgo, ad opera della figlia Rita, ne ricostruì la corrispondenza completa. «Bellintani è un mistico, quello della rabbia feroce – ha detto Elia Malagò, l’altra curatrice – che però non smette di sperare. La sua è la ricerca di un uomo mai pacificato, né con Dio né con la natura. La sua è una fede come ricerca, non come fede trovata». Un’intera giornata di studio, il 10 maggio 2014, è stata dedicata all’opera di Umberto Bellintani nel centenario dalla nascita, evento centrale di una serie di manifestazioni per ricordare “Berto”. Oltre alla presentazione di Forse un viso tra mille, una mostra di disegni, scritti inediti, oggetti personali al Museo Civico Polironiano, alcuni interventi critici, coordinati da Giorgio Bernardi Perini dell’Accademia Nazionale Virgiliana, hanno prospettato l’idea di una Fondazione per uno studio filologico della grandissima produzione di Bellintani, quasi interamente inedita. A questo proposito la Malagò ha osservato che “per lui, poesie, prose, lettere erano un grande atto di vita”, tra esse non c’è differenza perché tutte stabiliscono un rapporto sincero tra gli interlocutori. I carteggi epistolari inoltre, come le poesie, consentono di cogliere tutte le sfaccettature dell’uomo, “tortora e uragano”, quella miscela di concretezza e fragilità, realismo e visionarietà, grandezza e umiltà, arcaismo e dissonanza, ruvidità espressiva e tenerezza, già apprezzate dai critici del suo tempo e che non mancano di affascinare ancora oggi. E così il grande poeta di Gorgo torna a parlarci: riprende il dialogo. (Già pubblicato in QuiLibri n.25, settembre/ottobre2014, pagg. 33-34).